giovedì 27 maggio 2010

Panthera leo leo



Il leone dell'Atlante o leone berbero (Panthera leo leo) è una sottospecie di leone, un tempo diffusa in Nord Africa, ma attualmente considerata estinta in natura.


L'ultimo esemplare selvatico conosciuto fu abbattuto nel 1942 presso il passo montano di Tizi-N'Tichka nell' Atlnte marocchino (Harper, 1945; Guggisberg, 1961; Nowell e Jackson, 1996; Van den Hoek, Ostende 1999; Yamaguchi e Haddane, 2002).
Si ritiene possibile (Leyhausen 1975; Yamaguchi e Haddane, 2002) che alcuni esemplari, di vario livello di ibridazione, sopravvivano ancora in cattività come nel caso dei leoni dello zoo di Tèmara, una città marocchina nelle vicinanze di Rabat.
La possibilità di recuperare - e reintrodurre in natura - la razza originaria tramite riproduzione selettiva degli esemplari in cattività ha condotto, in tempi recenti, alla nascita di alcuni progetti di questo tipo come il "North African Barbary Lion and the Atlas Lion Project" dell'associazione inglese Wildlink International in associazione con l'Università di Oxford.

Caratteristiche fisiche ed etologia

Il leone dell'Atlante era per dimensioni la sottospecie più grande dopo il leone delle caverne e quello americano, diffusi, rispettivamente in Eurasia e in America, durante il Pleistocene.
I maschi avevano un peso compreso tra i 180 e i 270 kilogrammi; le femmine tra i 100 e 180 kg; dimensioni comparabili con la tigre siberiana. Il tratto distintivo caratteristico dei maschi era la folta criniera di colore nero che si estendeva sul petto con una forma simile a quella del leone asiatico, la sottospecie più prossima al leone dell'Atlante. La criniera scura contrastava fortemente con il resto del mantello, molto più corto e di colore chiaro.
In base agli studi di filogenetica molecolare l'antenato comune dei leoni africani e asiatici è vissuto tra i 200.000 e i 55.000 fa (O'Brien et alii, 1987) o tra i 203.000 e i 74.000 anni fa (Burger et alii, 2004) e quindi la separazione genetica tra le sottospecie africane è avvenuta in questo arco temporale ovvero tra la fine del Pleistocene medio e l'inizio dell'ultima glaciazione. Il leone berbero come sottospecie distinta si è evoluto più recentemente non più tardi di 100.000 anni fa (O'Brien et alii, 1987; Burger et alii, 2004; Burger, 2006).
L'areale del leone berbero era piuttosto ampio comprendendo tutta la fascia costiera settentrionale dell'Africa e, in particolare, il Maghreb,dal Marocco alla Libia. In misura minore era diffuso anche in Egitto e, passando per il Sudan, in Etiopia (Harper, 1945; Nowell e Jackson, 1996; Barnett et alii, 2006).
La gran parte delle zone di caccia del leone dell'Atlante sono ora desertiche o semi-desertiche, ma tutta la regione sahariana ha subito nelle ultime centinaia di migliaia di anni delle intense variazioni climatiche che hanno visto l'alternarsi di fasi in cui la desertificazione era maggiore di quella attuale e fasi in cui, al contrario, il Sahara era una rigogliosa savana alberata soggetta ad un clima molto più umido.Come conseguenza, il suo habitat era alquanto variegato comprendendo sia la savana che le aree boscose montane. A differenza delle altre sottospecie l'ambiente di caccia tipico rimaneva comunque quello di boscaglia o di foresta montana favorendo quindi una progressiva riduzione dell'areale già a partire dal XXV secolo a.C. con l'inizio della fase più recente di desertificazione.
Si ritiene (Yamaguchi e Haddane, 2002; Preservation Station, 2005) che lo stile di predazione fosse simile a quello degli altri felidi (ovvero per strangolamento dopo aver preso tra le fauci il collo della vittima), sebbene il suo habitat naturale lo rendesse più portato a cacciare da solo o in gruppi molto ristretti. Tra le prede abituali vi erano la capra berbera, il cervo comune, l'asino selvatico africano, il cinghiale e diverse specie di antilopi come Gazella cuvieri. Per catturare questi animali il leone dell'Atlante doveva competere con l'orso dell'Atlante e il leopardo berbero che sono ugualmente scomparsi o in via di estinzione dall'Africa settentrionale (Preservation Station, 2005).



Declino ed estinzione in natura
Il leone berbero in una illustrazione del 1898.
A partire dalla metà del III millennio a.C., il Sahara, fino ad allora occupato da una savana simile a quella dell'Africa orientale, comiciò a desertificarsi e ad assumere l'odierna conformazione. Insieme alle piante sparirono anche i grandi erbivori, e con loro i carnivori che li cacciavano. L'areale del leone berbero si ridusse progressivamente a tre zone distinte, separate dal deserto: la catena montuosa dell'Altante e la Tripolitania, il massiccio del Tassili n'Ajjer e la Nubia.
Il primo luogo in cui l'animale si estinse, sia per cause antropiche che climatiche, fu il delta del Nilo. Le cause antropiche sono da ricercare non tanto nella caccia quanto nella distruzione dell'habitat naturale operata dagli Egizi: essi disboscavano foreste, aravano terre, costruivano città. A mano a mano che loro civiltà si estendeva lungo il corso del fiume, i leoni arretravano.
Per tutto il periodo romano, il leone nord-africano veniva importato in migliaia di esemplari all'anno e utilizzato estensivamente nei combattimenti circensi contro altre fiere, gladiatori e prigionieri. Il suo possesso divenne un simbolo di potere, al punto che Giulio Cesare arrivò ad possederne seicento, e il suo avversario Pompeo, quattrocento.
La vasta opera di cattura in epoca romana causò una prima drastica diminuzione nella popolazione. Dopo un periodo di ripresa a seguito del declino dei giochi con la caduta dell'impero, l'espansione araba nel Nord Africa comportò un nuovo declino del leone. Con l'aumento della presenza antropica e la riduzione dell'habitat, la scarsità delle prede spinse il leone dell'Atlante a spostare la sua attenzione verso gli animali domestici come asini, capre e dromedari, contribuendo in questo modo alla sua persecuzione.
Con l'introduzione delle armi da fuoco, il leone berbero - oramai notevolmente ridotto - si estinse nel XVIII secolo in Libia, e a metà del XIX secolo nella Nubia e nel Tassili. Nel 1891 scomparve dalla Tunisia e nel 1893 dall'Algeria. Oramai presente solo in aree ridotte del Marocco, alcuni esemplari vennero rinchiusi nei giardini zoologici per evitare un'estinzione che già si avvertiva imminente.
Nel 1922, la Casa Reale del Marocco rinchiuse nel serraglio reale di Rabat un branco di leoni dell'Atlante, i cui discendenti furono ceduti nel 1973 al neocostituito zoo di Témara.
L'ultimo esemplare in libertà fu probabilmente il maschio abbattuto nel 1942, anche se avvistamenti non confermati si sussegguirono per tutti gli anni '40.

martedì 25 maggio 2010

Stambecco delle Alpi (Capra Ibex)


Lo stambecco delle Alpi (Capra ibex) è un mammifero dell' ordine degli Artiodattili, della famiglia dei Bovidi e della sottofamiglia dei Caprini, diffuso lungo l' Arco alpino.

Storia
100.000 anni fa, lo stambecco viveva in tutte le regioni rocciose dell' Europa centrale.
È stato anche fonte d'ispirazione per i popoli del Neolitico che lo disegnavano nelle grotte in cui vivevano, come appare nelle pitture murali della grotta di Lescaux in Francia.
Fino al XV secolo,era presente lungo tutto l'Arco alpino, ma lo sviluppo delle armi da fuoco segnò ben presto la sua fine in quei territori. La medicina dell'epoca poi, tutta centrata sulla superstizione, gli fu fatale. Le corna, ridotte in polvere,furono utilizzate come rimedio contro l'impotenza ed il suo sangue come rimedioper i calcoli renali. Lo stomaco infine fu indicato per combattere ladepressione. Queste credenze persistettero fino al XIX secolo, ma ormai se ne contavano solo qualche centinaio d'individui nelle Alpi italianee francesi, mentre era completamente scomparso in Svizzera.
La specie deve la sua sopravvivenza alla famiglia reale italiana. Fu infatti il re Vitttorio Emanuele II che fece proteggere, nel 1856, gli ultimi esemplari, per riservarli alla sua caccia personale in una riserva privata situata in Valsavarenche dove, per suo ordine, un gruppo di guardia-caccia li proteggeva da altri cacciatori. Ad oggi, la Valle d'Aosta è l'unica regione dell'arco alpino in cui la specie non sia mai scomparsa in tempi storici.

Distribuzione e Habitat
Lo stambecco è attualmente diffuso in tutto l'arco alpino, dalle Alpi Marittime ad ovest sino alle Alpi di Carinzia e di Slovenia ad est , ad altitudini comprese tra 500 e 3.000 m .Sebbene il suo areale si sia notevolmente ampliato nel corso del XX secolo,la sua distribuzione è tuttora abbastanza frammentaria.
Fatta eccezione per quella del Parco nazionale del Gran Paradiso, tutte le attuali popolazioni sono il frutto di reintroduzioni (Francia,Svizzera,Austria e Germania) o di nuova introduzione (Slovenia e Bulgaria).
Negli anni Novanta è stata stimata una popolazione complessiva di circa 30.000 esemplari. Di questi circa 15.000 vivono in Svizzera, 9.700 in Italia, 3.200 in Austria, 3.300 in Francia, 250 in Slovenia e 220 in Germania .
Il suo habitat tipico è costituito dagli ambienti rocciosi di alta quota, al di sopra della linea degli alberi. I costoni rocciosi scoscesi esposti a sud ricchi di vegetazione erbacea sono l'ambiente preferito. A livello subalpino li si può incontrare in aree aperte e soleggiate con presenza di affioramenti rocciosi .

Egagro (Capra Aegagrus)


L'egagro è una specie di capra selvatica diffusa in Asia centrale: molti naturalisti concordano nell'affermare che quest'animale possa essere considerato il progenitore della nostra capra domestica.

Distribuzione
L'egagro è diffuso su una vasta area dell'Asia centrale e occidentale. S'incontra nella parte meridionale del Caucaso,nell'Armenia,nella Persia,dove ama le cime delle montagne, la vicinanza delle nevi e quella dei ghiacciai.


Sottospecie

Considerando il vasto areale occupato da questo animale, è più che comprensibile che i caratteri della specie non siano uniformi ovunque, ma vi siano alcune sottospecie:
-Capra aegagrus aegagrus (Capra del Bezoar)
-Capra aegagrus blythi (stambecco dei Sindh)
-Capra aegagrus chialtanensis(stambecco del Chialtan)
-Capra aegagrus pictus
-Capra aegagrus turcmenica(stambecco barbuto)
A queste sottospecie, alcuni autori aggiungono la capra domestica, discendente sicura di questi animali ma spesso classificata come specie a sé stante, un po' come il cane domestico viene classificato come specie differente rispetto al suo progenitore, il lupo.

Dimensioni e aspetto
L'egagro è assai più grosso della capra domestica, sebbene sia più piccolo dello stambecco d'Europa. La lunghezza di un maschio adulto è di circa 1,50 metri, quella della coda 20 centimetri, 90 centimetri l'altezza al garrese, e 2 centimetri di più alla groppa. La femmina è leggermente più piccola.
Il corpo è piuttosto allungato, il dorso a spigolo, il collo di media larghezza, breve la testa, ottuso il muso, larga la fronte, pressoché diritto il naso. Le zampe sono relativamente alte e robuste, gli zoccoli terminanti in punte ottuse. La coda breve è adorna di peli lunghi e folti. Nella testa colpisce la piccolezza degli occhi rispetto al resto; le orecchie sono di media lunghezza.

Struzzo d'Arabia (Struthio camelus syriacus)



Lo struzzo dell'Arabia (Struthio camelus syriacus) è una sottospecie di struzzo estinta dal 1941.

Il suo areale comprendeva la Penisola arabica e il Medio Oriente.


Cause dell'estinzione
Durante la prima guerra mondiale fu oggetto di una spietata caccia; l'ultimo esemplare morì nel 1941, anche se pare che nel 1966 ne sia stato trovato un esemplare morto per un'alluvione. (fonte:guinness world records 2009).

Foca Monaca (Monachus monachus)


La foca monaca mediterranea (Monachus monachus) è un mammifero pinnipede della famiglia delle foche.
È una specie minacciata di estinzione, di cui sopravvivono in natura meno di 500 esemplari.

Descrizione
Le caratteristiche somatiche della foca monaca sono analoghe a quelle delle altre Phocidae: corpo allungato, irregolarmente cilindrico, rivestito da uno spesso strato adiposo ricoperto da unfitto pelo corto, vellutato, impermeabile all'acqua. La pelliccia è di colore nero nel maschio, marrone o grigio scuro nella femmina, più chiara sul ventre(nel maschio può essere addirittura bianca).
Gli arti anteriori sono trasformati in pinne mentre quelli posteriori costituiscono un'unica pinna posteriore.
Ha una lunghezza da 80 a 240 cm e può raggiungere i 320 kg di peso; le femmine sono un po' più piccole dei maschi.
Hanno la testa piccola e leggermente appiattita ed orecchie esterne prive di padiglione auricolare. Il muso è provvisto di alcuni baffi lunghi e robusti detti vibrisse.

Distribuzione
L'areale della foca monaca comprendeva una volta tutto il Mediterraneo,il Mar Nero, le coste atlantiche di Spagna e Portogallo,il Marocco,la Mauritania,Madera e le Canarie; foche erano segnalate spesso anche nella costa sud della Francia.
Nel corso del '900 l’areale si è fortemente ridotto e la foca monaca sopravvive in poche isolate colonie in Grecia, isole della Croazia meridionale,Turchia, nell'arcipelago di Madera, in Marocco e Mauritania. Occasionalmente vengono avvistati individui in dispersione lungo le coste di quasitutti i paesi mediterranei.
Anche dopo il 2000 comunque si sono avuti sporadici avvistamenti di animali isolati nel Canale di Piombino, a Montecristo, sulle coste della Provincia di Lecce a sud di Otranto, nella Liguria di Levante, nel breve tratto jonico della Basilicata e in Sicilia,ma con tutta probabilità si tratta di giovani in fase di dispersione. Le foche sono invece forse ancora presenti in Sardegna e un giovane esemplare, imbrigliato nella rete di un pescatore, fu regalato intorno agli anni '60 allo zoo di Roma.
Nel giugno 2009 la foca monaca è stata avvistata nelle acque antistanti la Torre del Campese,Isola del Giglio e del marzo 2010 a Capo Promontore in Istria.Recentemente la foca monaca è tornata a farsi vedere anche nelle acque dell'isola di Marettimo, al largo della costa di Trapani. La prima segnalazione risale al 31 marzo 2010 da un pescatore locale che ha avvistato un esemplare in prossimità delle Grotta del Cammello,la 'casa' prediletta da questo mammifero 30/40 anni fa. Nei giorni successivi, secondo le testimonianze locali, l'avvistamento ha riguardato due esemplari adulti, presumibilmente maschio e femmina e un cucciolo.
Alcuni ritrovamenti fossili effettuati in Toscana in argille del pliocene hanno contribuito a ipotizzare che la foca monaca discenda dalla Pliophoca etrusca che abitava il mare che circonda l' Arcipelago Toscano.

lunedì 24 maggio 2010

Camillo Golgi: Biografia e Studi Scientifici

Bartolomeo Camillo Emilio Golgi (Còrteno, 7 luglio 1843 – Pavia, 21 gennaio 1926) è stato uno scienziato e medico italiano.
Fu professore di istologia e patologia generale all'Università di ologna e all'Università di Pavia. Fu anche, assieme a Giosuè Caducci, il primo italiano a ricevere nel 1906 il prestigioso Premio Nobel.

Nacque il 7 luglio 1843 a Còrteno, in alta Val Camonica, dove il padre Alessandro, appena laureato, si era trasferito come medico condotto. Qui frequentò le scuole primarie e rimase per circa 15 anni. Durante la sua adolescenza studiò al liceo classico Ugo Foscolo a Pavia.
Terminati nel 1865 gli studi a Pavia con la laurea in medicina con una tesi "Sull'eziologia delle malattie mentali", discussa con Cesare Lombroso, entrò nel laboratorio istologico fondato da Paolo Mantegazza e diretto da Giulio Bizzozero, che fu suo primo maestro di ricerca. Per l'urgenza di trovare un lavoro sicuro e pressato dal padre, Golgi decide di partecipare al concorso per un posto di primario chirurgo presso le Pie Case degli Incurabili di Abbiategrasso( fondato nel 1785 nell’ex monastero femminile di Santa Chiara). Golgi vince il concorso e grazie all’articolo 86 del regolamento interno gli era riconosciuto come merito speciale dei sanitari l’occuparsi degli studi anatomo-psicologico.
Come laboratorio usò una piccola cucina rudimentale un microscopio e pochi strumenti e proprio durante il periodo di Abbiategrasso si contraddistinse per la grande attività di ricerca e in questo senso fu essenziale la sua amicizia con Giulio Bizzozzero in grado di mantenere vivo l'interesse per l’istologia e la vicinanza all’università . Cosi in quella cucina allestì un laboratorio di istologia in cui, nel 1873, ideò la rivoluzionaria "Reazione Nera" (Metodo Golgi). Questo metodo permetteva di colorare selettivamente le cellule nervose e la loro struttura organizzata.La sua scoperta fu conosciuta e apprezzata nella dovuta misura solo molti anni più tardi, soprattutto per merito del suo principale mentore, il patriarca della biologia ottocentesca Rudolph Albert Von Kolliker.Trasferitosi a Pavia, città natale del padre, ottenne le cattedre ordinarie di Istologia e Patologia generale, indi fu nominato rettore dell'Università, incarico che ricoprì a più riprese (1893-1896 e 1901-1909). Fece anche importanti scoperte nel campo della malarilogia, formulando la "Legge Golgi". Scoprì anche le terminazione nervose dei tendini, dette corpuscoli del golgi e compì importanti studi sui reni, la Corea di Hungtinton, i bulbi olfattori, ecc.

Nel 1877 sposò Evangelina Aletti, di tredici anni più giovane, nipote di Giulio Bizzozero. Il viaggio di nozze fu compiuto a Córteno, l'amato paese natale, per il quale Golgi serberà sempre grande affetto e si prodigherà per aiutare in mille modi. I due coniugi non ebbero figli.

Si dedicò anche alla politica, o meglio all'amministrazione pubblica, ricoprendo tra le altre la carica di assessore all'igiene in Comune. Fu anche lungamente membro, e poi presidente, del Consiglio Superiore di Sanità. Propose la costruzione del nuovo Policlinico San Matteo e lottò strenuamente perché l'ateneo pavese mantenesse ed accrescesse il suo secolare prestigio.
Più precisamente il 4 novembre 1893 Golgi tenne la relazione ufficiale per la solenne inaugurazione dell'anno accademico 1893-1894 e poco prima era diventato rettore dell'università Golgi. Inoltre aderì alla lista dell'Unione Liberale Monarchica, ovvero la lista clerico-moderata sostenuta dal giornale 'Il Ticino'. Cosi Roberto Rampoldi, esponente politico di spicco della sinistra radicale, divenne suo diretto antagonista nella lista democratica. Le elezioni furono vinte dallo schieramento di Golgi e quest'ultimo divenne consigliere comunale. Questo rappresentò un gran risultato in quanto da quelle posizione lo scienziato aveva sicuramente una maggiore influenza nell'indirizzare l'attenzione dell'amministrazione municipale verso i progetti di rinnovamento dell'università di Pavia. Quest'attività febbrile si manifestò in modo evidente quando il prestigio dell'ateneo pavese fu minacciato dalla nascita di un nuovo polo universitario milanese. Il 2 marzo del 1893 era scomparso l'ingegnere Siro Valerio che aveva lasciato il suo patrimonio al comune di Milano affinché costituisse un fondo per l'università per lo studio delle scienze. Questo progetto fu immediatamente avviato dal ginecologo dell'Ospedale Maggiore di Milano, Luigi Mangiagalli ed ovviamente questo suscitò la reazione nell'ambiente universitario pavese in quanto il rinnovamento delle strutture universitarie della facoltà delle scienze avrebbe potuto causare un indebolimento dell'ateneo pavese.

Aveva allora 53 anni e avrebbe potuto accontentarsi di dirigere gli studi degli allievi ma era troppo forte la passione per l'attività di laboratorio fatta in prima persona. Cosi nel 1898, Golgi riprese la sua attività di ricerca e più precisamente i suoi studi sulla cellula lo portarono alla scoperta dell'Apparato di Golgi, uno dei componenti fondamentali della cellula, cinquanta anni prima dell'invenzione del microscopio elettronico, che la confermerà in pieno.

Fu insignito del Premio Nobel per la Medicina (precisamente "Medicina o Fisiologia") nel 1906 ex aequo con Santiago Ramòn y Cajal, per gli studi sulla istologia del sistema nervoso: Golgi per la messa a punto della Reazione Nera, Cajal per le scoperte compiute grazie alla colorazione di Golgi. Cajal scoprì che i neuroni sono separati fisicamente l'uno dall'altro, ossia che interagiscono tra di loro non per continuità, bensì per contiguità attraverso la sinapsi e che non sono uniti a formare un'unica rete sinciziale come sosteneva Golgi. Formulò quindi la legge cosiddetta della Polarizzazione Dinamica. Con il Premio Nobel raggiunse il massimo della fama internazionale e la sua attività di ricerca non cessò. Inoltre durante la prima guerra mondiale diresse l'Ospedale Militare organizzato nell'antico Collegio Borromeo di Pavia e promosse il trattamento riabilitativo dei feriti di guerra; creando un centro la riabilitazione delle lesioni al sistema nervoso periferico. Dopo il conflitto continuò a lavorare nel laboratorio pubblicando lavori scientifici fino al 1923. Inoltre anche nell'ultimo periodo della sua vita Golgi cercò di arginare gli eventuali danni che sarebbero derivati dall'imposizione dell'ateneo milanese. Non si diede per vinto e ignorando il declino delle sue condizioni fisiche decise all'inizio di dicembre di recarsi a Roma a sostenere la nascita del nuovo ospedale San Matteo. Infine il 21 gennaio del 1926 le sue condizioni fisice divennero critiche e la morte si verificò a Pavia, città in cui è sepolto insieme alla moglie, accanto alle tombe di Bartolomeo Panizza, suo professore, e Adelchi Negri, suo brillante allievo.

giovedì 20 maggio 2010

Lazzaro Spallanzani: Biografia e Studi scientifici

Lazzaro Spallanzani (Scandiano, 12 gennaio 1729 – Pavia, 11 febbraio 1799) è stato un gesuita e biologo italiano, considerato il "padre scientifico" della fecondazione artificiale, è ricordato soprattutto per aver confutato la teoria della "Generazione spontanea" con un esperimento che verrà successivamente ripreso e perfezionato da Louis Pasteur.

Biografia:
Nacque da Gian Nicola e da Lucia Zigliani; a quindici anni entrò nel collegio dei gesuiti di Reggio Emilia, dove seguì i corsi di filosofia e di retorica.
All'Università di Bologna compì gli studi di diritto, ma abbandonò poco dopo tale facoltà per dedicarsi alla filosofia naturale, avendo come insegnante Laura Bassi. Esordì come scienziato con le Lettere due sopra un viaggio nell’Appennino Reggiano e al lago di Ventasso, riguardanti il problema dell’origine delle sorgenti.
Nel 1757 insegnò greco nel Seminario e fisica e matematica all’Università di Reggio Emilia. Nel 1762 prese gli ordini sacerdotali e nel 1763 si trasferì a Modena, dove insegnò filosofia e retorica all’Università e Matematica e greco presso il Collegio San Carlo di Modena.
Nel novembre del 1769 fu chiamato all'Università di Pavia, per insegnarvi Storia naturale (carica che assunse fino alla morte) e assunse la direzione del Museo dell’Università, di cui fu rettore nell’anno 1777 - 1778.
Sin dal 1771 era riuscito a creare un Museo di Storia Naturale, che nel corso degli anni acquistò una grande fama, anche internazionale, e fu visitato perfino dall'imperatore Giuseppe II d'Austria. Effettuò numerosi viaggi, fra quelli celebri a Costantinopoli (1785-86) e nelle Due Sicilie (1788), durante i quali realizzò anche importanti osservazioni in ambito geologico. Nel 1785, mentre era in un viaggio a Costantinopoli e nei Balcani, fu accusato dal custode del Museo di Pavia (sobillato da alcuni colleghi) di aver rubato reperti del Museo: la vicenda si concluse dopo un anno con la dimostrazione della completa innocenza di Spallanzani e la condanna dei calunniatori. Morì nella notte tra l'11 e il 12 febbraio 1799 nella sua abitazione di Pavia. Oltre al Museo di Pavia, Spallanzani costituì nella sua casa di Scandiano una raccolta privata, che oggi si trova nei Musei Civici di Reggio Emilia.

Studi:
Nel 1761 iniziò a interessarsi della "Generazione spontanea", il principale problema allora discusso dai naturalisti, e, dopo quattro anni di ricerca, nel Saggio di Osservazioni Microscopiche sul Sistema della Generazione de’ Signori di Needham e Buffon (1765),riuscì a determinarne l’infondatezza.
Egli preparò degli infusi e li sterilizzò facendoli bollire per più di un'ora. Alcuni di questi infusi erano contenuti in recipienti di vetro sigillati alla fiamma. Spallanzani notò che in questi contenitori non si verificava crescita batterica (l'infuso non si intorbidiva né era possibile osservare microrganismi al microscopio). Questo lavoro lo fece conoscere in tutta Europa.

Nel 1768 si interessò della circolazione sanguigna e su questo argomento pubblicò Dell’azione del cuore nei vasi sanguigni.
Tra il 1777e il 1780 approfondì il problema della riproduzione e fin dal 1777 ottenne la prima fecondazione artificiale, usando uova di rana e rospo. Raccolse i risultati dei propri esperimenti in Dissertazioni di fisica animale e vegetale. Si dedicò, inoltre, a ricerche inerenti la digestione e la respirazione.
Le sue ricerche di fisologia gastroenterologica furono fondamentali nel dimostrare come il processo digestivo non consista solo nella semplice triturazione meccanica del cibo, ma anche in un processo di azione chimica a livello gastrico, necessario per permettere l'assorbimento dei nutrienti.

Museo di Storia Naturale dell'Università di Pavia: cenni storici

Il Museo Pavese di Scienze Naturali fu fondato nel 1771 da Lazzaro Spallanzani, abate e naturalista che per trent'anni (1769-1799) profuse il suo talento di docente e ricercatore presso l'Università di Pavia.
Le prime raccolte, inviate da Vienna a Pavia per espressa volontà dell'Imperatrice Maria Teresa d'Austria, trovarono una provvisoria sistemazione presso il Collegio Ghislieri (1771). Per il veloce accrescersi delle collezioni acquisite o raccolte dallo stesso Spallanzani durante i suoi viaggi, il Museo, che contava già una sezione di Zoologia e una di Mineralogia, fu trasferito nel 1775 in alcune sale del Palazzo dell'Università dove i reperti vennero ordinati secondo la classificazione linneana. Nel 1780 il museo contava oltre 20.000 esemplari giunti a Pavia da ogni dove e destinati ad aumentare per l'incessante ricerca di materiale a scopo didattico.
Del periodo spallanzaniano si conservano tra gli altri: la collezione di vermi viscerali acquistata nel 1781 dal pastore Giovanni Goeze di Quedlimburgo; esemplari di rettili, anfibi e pesci della collezione Van Hoey del 1784; un enorme coccodrillo del Nilo regalato dal conte Giacomo Sannazzari nel 1782; un delfino del 1790 proveniente dai mari siciliani; un ippopotamo giunto da Mantova nel 1783; un urangutan del 1786.
"Oh quanto mi ha dato nel genio le novella da lei recatami dell'ourang-outan ch'Ella ha acquistato per Pavia! Nella nomenclatura delle simie, e nella storia di esse io voglio impegnare dalla cattedra sei in sette lezioni, ma non poteva su questo importante argomento fare ostensioni a miei scolari, per mancanza di esemplari, non avendo io che qualche piccola simmia delle più vulgari. Il rarissimo animale da Lei provveduto verrà molto al proposito, quando in avvenire dovrò parlare delle stesse materie, per essere l'orang-outang quell'anello che lega insieme gli animali con l'uomo. Questo sol pezzo vale per mille, e ai suoi lumi, al suo zelo pel Museo di Pavia si deve tutta l'obbligazione". Così Spallanzani ringraziava Sperges per il prezioso dono.
Nel XIX secolo il numero sempre crescente di reperti consentì la separazione delle collezioni che diedero così origine a tre Musei autonomi: Anatomia-Comparata (1875), Geologia e Paleontologia (1887) e Zoologia, come supporto alla didattica degli Istituti omonimi. Sotto la Direzione di Pietro Pavesi (1876-1907) che fu anche Sindaco della città di Pavia, il Museo di Zoologia raggiunse il massimo splendore raccogliendo oltre 50.000 esemplari. Sono di questo periodo la famosa collezione di Issel di conchiglie terrestri e molti mammiferi tra cui un gorilla, un orango, due gibboni, lemuridi, un elefante africano e la splendida collezione di aracnidi del Pavesi stesso.
Con il trasferimento degli Istituti di Anatomia Comparata (1903) e di Zoologia (1935) anche i Musei annessi trovarono una nuova collocazione a Palazzo Botta. Tra il 1956 e il 1961, le raccolte dei tre Musei furono trasportate presso il Castello Visconteo allo scopo di renderle ostensibili al pubblico sulla base di una convenzione tra Università, Comune e Provincia che prevedeva l'allestimento di un Museo Civico di Storia Naturale.
Purtroppo le collezioni rimasero abbandonate a se stesse per oltre trent'anni, fino alla costituzione del Centro Interdipartimentale di Servizi "Musei Universitari" (1989) che, con la collaborazione del Comune e della Provincia di Pavia, ha avviato dal 1995 il restauro delle collezioni, permettendo, negli ultimi tre anni, la fruibilità di alcuni reperti in tre mostre: "Immagini dell'Ornitologia nell'800 a Pavia" nel 1996, "Pesci di ieri e di oggi" nel 1997 e "Artigli e zanne: grandi e piccoli predatori" nel 1998, organizzate in occasione della settimana della cultura scientifica e tecnologica promossa dal M.U.R.S.T.
Il recupero e la tutela delle collezioni museali nell'interesse di ricercatori e studenti, ma anche del pubblico in genere, mira alla conservazione di un inestimabile patrimonio storico-scienti-fico e al consolidamento della collaborazione tra Università e Enti pubblici nell'intento di consentire la fruibilità permanente dei reperti mediante l'allestimento di un Museo di Storia Naturale

Museo Storico dell'Università di Pavia: cenni storici

Il Museo Storico dell'Università di Pavia nacque nel 1932 in occasione del primo centenario della morte di Antonio Scarpa, fondatore della Scuola Anatomica pavese. A quell’epoca il museo accoglieva scritti autografi, opere a stampa e preparazioni anatomiche dello stesso Scarpa e di altri anatomici come Giacomo Rezia e Panizza. Il materiale anatomico divenne il primo nucleo dell’attuale allestimento museale, inaugurato ufficialmente nel 1936. Nel secondo dopoguerra, alla sezione di Medicina fu aggiunta la sezione di Fisica, intitolata ad Alessando Volta.
Oggi il Museo per la Storia dell’Università contiene preparati anatomici, strumenti di fisica e chirurgici, documenti relativi alla storia dell’ateneo e cimeli.

La Sezione di Medicina si articola in tre sale, intitolate rispettivamente all’anatomico Antonio Scarpa, al patologo chirurgo Luigi Porta, all’istologo e patologo Camillo Golgi.
Nella Sala Scarpa l’attività di studio condotta a Pavia nel campo delle scienza matematiche, naturali e chimiche, è testimoniata da reperti relativi a scienziati quali Vincenzo Brunacci, Lazzaro Spallanzani e Luigi Valentino Brugnatelli.
La Sala Porta è invece in gran parte dedicata ai preparati anatomici riguardanti il sistema circolatorio. Conservati a secco, in alcol o in soluzione di formaldeide, questi reperti testimoniano interventi chirurgici o la risposta a situazioni sperimentali. Accanto a questo materiale sono conservati anche volumi e cartelle cliniche. I pezzi della collezione che destano più curiosità sono la testa e le dita dell’anatomico Antonio Scarpa, conservati in alcol in una teca di vetro. Alcuni spiegano l’esistenza di questi oggetti associandoli al vero e proprio culto che sarebbe nato attorno al professore, mentre secondo altri fu talmente odiato dai suoi collaboratori da giungere a mutilarlo dopo la morte avvenuta nel 1832.
La Sala Golgi accoglie oggetti, manoscritti e appunti delle lezioni di Camillo Golgi, del suo carteggio e l’attestato originala del Premio Nobel assegnatogli nel 1906. Nella stessa sala sono conservati anche reperti di altri medici, tra cui gli strumenti utilizzati da altri scienziati illustri.

La sezione di Fisica comprende due sale: il gabinetto di fisica di Alessandro Volta e il gabinetto di fisica dell’800. Nella prima sala sono conservate le menzioni di Volta e gli strumenti da lui utilizzati per ricerca e didattica. Nella seconda sala sono esposti gli strumenti inventati o utilizzati dai successori alla cattedra di fisica nel corso dell’800.